di Carlo Idotta

La rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi
Umberto Eco, “Il nome della rosa”
Iniziamo il nostro piccolo viaggio da un equivoco tutto italiano: intelligenza, in Intelligenza Artificiale (IA), è una parola che non rende una particolare sfumatura del termine inglese Intelligence. Tra i suoi significati ha infatti quello di “capacità di apprendere ed elaborare informazioni”, ma anche quello di “informazione/informazioni”. I Dati, dunque! Ricordiamoceli, ci torneremo in una prossima puntata.
Se a Intelligence aggiungiamo “Artificiale”, portiamo in campo il “non naturale”, il “non vero/non autentico”, il “creato dall’uomo”.
Intelligenza Artificiale potrebbe essere dunque “un artefatto in grado di acquisire, mantenere, elaborare informazioni (deducendone di nuove?), imitando funzioni umane in modo non reale.”
Ci basta?
L’equivoco legato alla traduzione permette di sollevare anche un problema più generale: l’essere umano ha la tendenza a convincersi come per magia che a ogni parola corrisponda un oggetto, e che quello sia fisso e immutabile. Fa molta fatica con le differenze e con l’incertezza, gli viene l’ansia, quindi tenta sempre – e non sempre consapevolmente – di mettersi nelle condizioni di avere a che fare con cose note e controllabili: quante volte abbiamo detto o ci siamo sentiti dire “stai fermo lì e non ti muovere!”?
Per fare un esempio che ci riguarda: il fatto che esista la parola “intelligenza” sembra implicare che esista anche “L’Intelligenza” come cosa in sé, e non come concetto operativo e figlio della cultura e degli scopi che ha in una determinata epoca.
Il problema che viviamo sulle nostre pelli è che le parole sono nate nei gruppi di esseri umani per rispondere a esigenze molto pratiche, legate all’azione comune e alla sopravvivenza (Sini, 2024), non certo per classificare le famigerate Cose in Sé, nella loro essenza ultima. Aggiungiamoci pure che, una volta fissate con la scrittura, quel dire vivente è stato apparentemente stabilizzato e universalizzato. Solo apparentemente, precisiamo: che si siano combattute (e si combattano) vere proprie guerre sante per far prevalere “La verità” dell’una o dell’altra parte dovrebbe darci da pensare.
Insomma, quello che traduciamo in italiano come intelligenza non dice affatto la medesima cosa di quello che era per un abitante della Grecia Classica, forse ha più a che fare con l’inglese Mind che con Intelligence, e così via… Torneremo su questo, ma… Che confusione, quando cerchiamo di sganciare il concetto dallo scopo, dalla vita alla quale è legato!
Tornando alla nostra IA, se non avessimo usato impropriamente la parola intelligenza, ma per esempio “macchina calcolatrice di seconda, terza o ennesima generazione” (ma anche su “generazione” potremmo avere da ridire!) sarebbero forse nate tante fantasie sui robot ribelli, fantasie che sono peraltro antichissime?
Dal primo equivoco ne deriva un altro, legato all’utilizzo di termini che riconducono a comportamenti o azioni umane. “Allenare”, “imparare” o “ricompensare” sono termini impropri se applicati a tecnologie non coscienti: è una metafora, ok, ma che metafora!
Le macchine non imparano come fanno gli esseri umani, e nemmeno vengono “allenate” nel senso comune del termine. Usiamo queste parole per semplificare, ma rischiamo di creare fraintendimenti. Ad esempio, un computer non “impara” nel senso in cui un bambino impara a parlare. Piuttosto, esegue calcoli e ottimizza schemi basandosi su enormi quantità di dati.
Non è un caso che le due principali linee di ricerca della IA vadano nella direzione l’una della maggior efficienza nell’esecuzione di un compito (IA ingegneristica), l’altra del tentativo di replicare i processi della cosiddetta mente umana (IA cognitiva). È fuori da ogni dubbio che, nonostante gli impressionanti progressi consentiti dalla velocità di calcolo e le luci di una ribalta che non accennano a spegnersi, la seconda strada sia tanto affascinante quanto ancora ben distante dall’offrire risultati “reali”. La prima, invece, lavora e trasforma la nostra società…
Una definizione di Intelligenza Artificiale che ci sembra ancora valida e utile è quella prodotta nel 1955 da McCarthy et al nel contesto del “Dartmouth summer research project on artificial intelligence”: per il presente scopo il problema dell’IA è quello di fare sì che una macchina agisca con modalità che sarebbero definite intelligenti se un essere umano si comportasse allo stesso modo.
Detto in altre parole: se un essere umano si comportasse in quel modo, quel comportamento sarebbe definito intelligente. Non significa che la macchina sia intelligente o che addirittura stia pensando, che quello che sta dietro a uno stesso comportamento, per esempio una stessa risposta da parte di un bot e di un terapeuta, sia lo stesso che in un umano.
Attenzione! Stiamo sempre parlando di azioni e di comportamenti, non quindi di pensiero o di intelligenza.
“Può farlo anche una macchina” per dire che un determinato compito non è più “intelligente” equivale a riconoscere esattamente come funziona il processo in questione: l’IA può eseguire con successo un compito solamente nel caso in cui può slegare la sua esecuzione dalla esigenza di essere intelligente nell’eseguirlo.
E questo, vedremo più avanti, può avvenire solamente se un problema difficile, impossibile da risolvere per una macchina, viene tradotto in un problema complesso: è lì che la macchina riesce a funzionare al suo meglio, a patto di riuscire ad avvolgerla in un ambiente (anche un ambiente di input verbali è un ambiente, in un certo senso) nel quale le domande che le facciamo, i compiti che le chiediamo di svolgere, le siano “comprensibili” (l’input non deve dare “errore”).
Abbiamo recuperato una definizione operativa di Intelligenza Artificiale, che ad oggi vale sia per l’IA ingegneristica che per i tentativi di sviluppo di quella cognitiva (la prima più alla luce del sole, la seconda cercando di nasconderlo come si riesce).
Possiamo spendere qualche parola per delimitarne il campo: IA è una scorciatoia per riferirsi a una turbolenta e un po’ confusa famiglia di scienze, metodi, paradigmi, tecnologie, prodotti e servizi.
Prendiamo a prestito uno schema (Corea, 2019) che renda almeno visivamente l’idea della vastità e della complessità del mare che stiamo navigando. Soprattutto, di come il problema della “intelligenza”, qualche cosa di cui gli esseri umani fanno esperienza quotidiana nella sua globalità (quando ci danno degli stupidi, abbiamo bisogno di computarlo?), debba essere scomposto in “domini”: percezione, ragionamento, conoscenza, pianificazione, comunicazione. Sminuzzato, per essere fatto capire alla macchina.

Forse già oggi a un occhio esperto questo diagramma risulterà impreciso e incompleto, un po’ come quando guardiamo le antiche mappe nelle aree in cui si trattava di rappresentare i luoghi di confine: bizzarre e piene di parole incomprensibili.
Si tratta di una similitudine che forse termina qui… ha senso recuperare anche il piacere bambino di toccare, annusare, sfogliare e riempirsi gli occhi delle immagini dei vecchi atlanti e libri illustrati? Quanto pensiamo ci possa servire l’aver vissuto quell’esperienza per poter sognare di andarci per davvero?
Alla prossima puntata.
Orientarsi con le stelle (2): Intelligence Artificiale by Carlo Idotta is licensed under CC BY-NC-SA 4.0