di Carlo Idotta
Nel 1980, Italo Calvino scriveva “Molte volte l’impegno che gli uomini mettono in attività che sembrano assolutamente gratuite, senz’altro fine che il divertimento o la soddisfazione di risolvere un problema difficile, si rivela essenziale in un ambito che nessuno aveva previsto, con conseguenze che portano lontano. Questo è vero per poesia e arte, come è vero per la scienza e per la tecnologia. Il gioco è sempre stato il grande motore della cultura.”
Perdersi nel gioco è una faccenda seria, come ben sa ogni bambino degno di questo nome, piccolo o adulto che sia: è una questione vitale che riguarda il rapporto tra la realtà interna e quella esterna e che, come direbbe Alberto Savinio, ci accompagna tutta la vita.
Esiste una particolare categoria di giochi, quella delle costruzioni, e tra queste una categoria speciale è quella delle creazioni artistiche. Il loro destino può essere sorprendente: a volte è difficile separarsene perché sono troppo “nostre”, e non riusciamo a immaginarle e immaginarci staccati da esse; in altri casi ci troviamo ad avere a che fare con dei doppi che, svincolandosi dai creatori, acquisiscono una propria autonomia: lo sanno bene Pigmalione e la sua statua, e gli orologiai svizzeri che costruirono gli automi di La-Chaux-de-fonds, di cui adesso vi parleremo…
Le Metamorfosi di Ovidio presentano una straordinaria ricchezza di suggestioni e, attraverso i miti che tentano di sistematizzare, aprono spazi immaginari senza tempo in cui riconoscere tracce dei fantasmi che oggi tentiamo di fotografare.
Il racconto solitamente asciutto del mito trova in questa storia un’apertura degna del poeta: la storia di Pigmalione inizia infatti con un sentimento molto intenso.
“Avendole viste condurre vita dissoluta, Pigmalione, disgustato dei vizi illimitati che natura ha dato alla donna, viveva celibe, senza sposarsi, e senza una compagna che dividesse il suo letto a lungo rimase. Ma un giorno, con arte invidiabile scolpì nel bianco avorio una statua, infondendole tale bellezza, che nessuna donna vivente è in grado di vantare.” [Ov. Metamorfosi, libro X, 243]Pigmalione si innamorò della sua opera, bruciava di passione per quel corpo simulato, non voleva ammettere che fosse solo d’avorio. Immaginava che la statua gli restituisse i baci, le parlava, le faceva molti doni. La chiamò sua compagna e delicatamente, quasi che lei potesse sentire, le faceva appoggiare la testa su morbidi cuscini. Giunto il giorno della festa di Venere, chiese alla dea “una donna uguale alla sua, d’avorio”, intendendo proprio la sua ma non potendolo nemmeno pensare per la vergogna. Che una creazione prendesse vita era sempre stato affare del dio. Venere, intuendo il desiderio profondo di Pigmalione, l’accontentò. Dopo l’iniziale incredulità, l’autore si unì appassionatamente alla propria creazione e da lei ebbe una figlia, Pafo.

Anche la costruzione di automi nel Settecento non fu semplicemente un gioco, sebbene fosse presentata come tale: come per Pigmalione, era un’ossessione, un sogno demiurgico e una grande sfida filosofica. Pensiamo a che cosa significasse paragonare l’essere umano a una macchina: già dal Cinquecento, grazie allo sviluppo degli studi anatomici e in seguito al pensiero di Cartesio, il corpo umano iniziò a essere visto come un meccanismo, una posizione inedita rispetto alla tradizione galenica e medievale, ancora impregnata da elementi metafisici e vitalistici. Per quanto estremamente complesso, un apparatus potenzialmente controllabile e codificabile.
La sfida, insomma, era quella comune a quella che molti neuroscienziati oggi si pongono di fronte alla mente: può essere l’umano ridotto a una serie di operazioni? Sembra un proponimento di segno opposto a quello di Pigmalione, quella di trasformare l’umano in un artificio: è questione di potenza di calcolo, dell’intervento del dio, oppure c’è necessità di una forma particolarmente efficace di delirio?
Nel Settecento, tre maestri orologiai svizzeri, Jaquet-Droz padre e figlio insieme a J.-F. Leschot, crearono tre celebri automi: lo scrivano, il disegnatore e la musicista, chiamati “Androidi”. Questi sorprendenti oggetti sembrano segnalare in un modo non poco inquietante la convergenza “fantascientifica” tra il meccanicismo e il razionalismo dell’epoca dei Lumi e l’irrazionalismo del magnetismo animale di Mesmer; il tutto condito dai pizzi e dai merletti dell’epoca precedente alla Rivoluzione Francese. Nulla fanno per nascondere il loro aspetto di bambole, la sostanza di marchingegni.

Citiamo:
“Lo «scrivano» o «scrittore» è quello che ha la faccia meno intelligente ma il meccanismo più complicato: il polso si muove in tre direzioni, la penna d’oca traccia le lettere coi pieni e i vuoti della regola calligrafica, s’intinge nel calamaio, cambia di riga come una macchina da scrivere, e un dispositivo la blocca quando mette il punto fermo.
Le performances del «disegnatore» sono più d’effetto ma il meccanismo è molto meno complicato di quello dello «scrittore». Il suo repertorio è di quattro disegni, fissati all’epoca della costruzione, tra i quali un cagnolino e il profilo di re Luigi XV. Vuole l’aneddoto che in occasione d’un’esibizione davanti a Luigi XVI e a Maria Antonietta, l’operatore emozionato, dopo aver annunciato il ritratto del re da poco defunto, sbagliasse la manovra di messa in moto: sotto la matita dell’automa apparve il cagnolino, «il che diffuse un certo disagio».
Mentre il viso dei primi due è quello di due bambolotti infantili, la suonatrice di clavicembalo è una bambola-donna con un’espressione e un mistero, per la quale si possono immaginare invaghimenti perversi. Essa è «l’unica bambola al mondo che respiri, partecipando così alla nostra vita, traendo in apparenza la fonte della propria esistenza dalla stessa aria da cui dipende anche la nostra»”
Dopo la costruzione dei tre automi, la vita degli orologiai cambiò completamente: essi vissero soprattutto in funzione delle loro creature, portandole in giro per l’Europa, la loro ditta si allargò… e si fece strada un po’ di confusione: parlare dei Droz significava parlare dei tre orologiai o dei tre automi, diventati ormai parte della famiglia, ciascuno con un proprio nome e cognome?
“Si direbbe che gli automi, ribellatisi, abbiano rivendicato la loro autonomia e usurpato l’identità dei loro inventori. Fu per questo che la grande impresa Jaquet-Droz entrò in crisi e fece rapidamente fallimento?”
Più che dei destini dei personaggi illustrati in queste vignette, ci è parso interessante sottolinearne i moventi, rintracciandovi qualche cosa di estremamente umano che forse rischia di perdersi di fronte alla meraviglia e allo sgomento delle conseguenze.
Vi chiederete come tutto questo potrebbe avere a che fare con la nostra Intelligenza Artificiale… Che cosa vi suscitano queste storie? Lasciate andare la fantasia e scriveteci, nei commenti qui sotto, su Instagram oppure a info@metis-onlus.it!
Bibliografia:
Alberto Savinio, Tutta la vita, Adelphi
Italo Calvino. Guardare: Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni, Mondadori
Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, Garzanti
Androidi. Le meraviglie meccaniche dei celebri Jaquet-Droz, Testi di: Jean-Pierre Jelmini, Roland Carrera, Dominique Loiseau, Franco Maria Ricci Editore
Tra la vita e la morte (2): Pigmalione e gli Androidi di La-Chaux-de-Fonds by Carlo Idotta is licensed under CC BY-NC-SA 4.0